«A parte poche eccezioni,al mondo tutti, uomini e animali, lavorano con tutte le forze, con ogni sforzo, dal mattino alla sera solo per continuare ad esistere: e non vale assolutamente la pena di continuare ad esistere; inoltre dopo un certo tempo tutti finiscono. È un affare che non copre le spese» (Arthur Schopenhauer, aforisma)
Il tema della morte in Schopenhauer è orientato in una direzione diversa.
L'atteggiamento quotidiano nei confronti della morte viene preso come una sorta di filo conduttore che contiene indizi ricchi di senso. Esso oscilla tra noncuranza e terrore. Di questi stati affettivi Schopenhauer propone una notevole spiegazione psicologico-metafisica. La morte incombe su ciascun individuo come un evento che può intervenire in ogni istante in modo più o meno inatteso, più o meno fortuito. Eppure ciascuno, nella misura del possibile, vive lietamente «come se la morte non ci fosse» (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1985, p. 324). Non appena ci si trova realmente faccia a faccia con la morte o anche soltanto ci si immagina di esserlo, a questa noncuranza subentra il terrore di essa: l'individuo cerca allora con ogni mezzo di fuggirla. Certamente Schopenhauer rifiuterebbe di collegare noncuranza e terrore come se la prima fosse un modo di reagire e di rimuovere questo terrore sempre incombente, quindi come se vi fosse tra entrambi un nesso puramente psicologico; e nemmeno accetterebbe una spiegazione razionale, come se cioè la noncuranza fosse il risultato di una riflessione e di un ragionamento implicito sull'ineluttabilità della morte. Si tratta piuttosto di scoprire le radici metafisiche di questi sentimenti che rimandano all'essenza del reale che è volontà e nello stesso tempo al superamento del momento empirico-fenomenico. Nel terrore di fronte alla morte parla in realtà la voce stessa della natura, intesa come concretizzazione della volontà che è essenzialmente volontà di vivere. E proprio questo sentimento attesta che :
«tutto il nostro essere in se stesso è già volontà di vita, a cui questa deve valere come il sommo bene, per quanto amareggiata, breve ed incerta essa sia» (Supplementi, II, XLI, p. 482).
E poiché la volontà non è affatto distribuita e spezzettata fra gli individui, ma è presente nella sua totalità in ciascun individuo, allora si comprende che l'orrore della morte è orrore che il principio metafisico stesso manifesta di fronte all'idea della propria autodistruzione.
«Nel linguaggio della natura la morte significa annientamento» (ivi, p. 481) ed è significativo che l'annientamento sia anzitutto annientamento del corpo che è «oggettivazione immediata della volontà».
Ma anche la noncuranza è, alle sue radifici, noncuranza della natura: la morte - dice Schopenhauer «dissipa l'illusione che separa la coscienza individuale da quella universale» ( M 324), ricongiungendo la mia vita alla totalità vivente del mondo. Ed allora possiamo veramente essere noncuranti della morte, e in un senso profondo, che può arrivare alla piena consapevolezza dell'intramontabilità del presente che è anche l'intramontabilità della vita. Il presente è allora paragonabile ad un
«eterno mezzogiorno al quale non mai succede la sera, o come il vero sole che arde ininterrottamente benché sembri tuffarsi nel seno della notte» (Mondo, 1985, p. 324). Sullo sfondo di ciò vi è certamente sempre il pensiero dell'effimero. Ma questo deve essere pensato attraverso l'idea di una ricongiunzione con la totalità da cui l'individualità è stata scissa per entrare nel vortice di un mondo che è mera apparenza. In questa totalità la morte è, non meno della nascita, una vicenda interna della vita, essa appartiene alla vita immortale della natura (Mondo, 1985, § 54, p. 317). Questa vitalità della natura ha nel ciclo corporeo il proprio modello elementare: in esso vi è acquisizione ed espulsione di materia e tra acquisizione ed espulsione generazione continua di cellule vitali.E così nello sviluppo della pianta la foglie e i fiori caduti a terra rappresenteranno il suo concime. La «fresca esistenza» di ciascuno è «pagata con la vecchiezza e la morte di un defunto, il quale è perito, ma che conteneva il germe indistruttibile dal quale è nato questo nuovo essere: essi sono un essere solo» (Supplementi, 1986, II, XLI, p. 521).
Arthur Schopenhauer
Raniero
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