mercoledì 23 febbraio 2011

La Morte parte 1

Nei miei lavori affronto spesso l'argomento della morte in quanto ritengo che accomuna tutti gli essere viventi, specificatamente l’uomo, in una sorta di destino comune quasi come una comunione tra individui che permette un’interazione.
Il “mortale” si affanna a costellare la sua esistenza di tutta una serie di piccole morti, di esperienze che lo portino a vanificare, seppur per un momento, quella discontinuità che lo rende solo e che gli impedisce di comunicare con gli altri individui.
Esiste un’altro momento di possibile interazione e quello si chiama EROS; la pulsione di vita, (l'eros) affiancata da una pulsione di morte (thanatos).

Vivo il presente come dovessi morire oggi, penso al domani come non dovessi morire mai.

Come testimonia Sofocle, l'uomo è sempre stato considerato la specie astuta per eccellenza, la specie che grazie al suo intelletto ha saputo adattare il mondo che lo circonda alle sue esigenze imparando a coltivare, a navigare, a catturare gli animali e a servirsene per i suoi bisogni; l'uomo sembra, dunque, essere l'animale che più si avvicina all'onnipotenza divina.
In Sofocle si legge, infatti, che l'uomo è l’essere terribile e prodigioso a causa della sua astuzia, a causa di quella temibile sagacia che consiste nell'essere <<pantóporos>>, nell'essere, cioè, ricco di risorse, nell'avere la capacità di trovare nuove strade da percorrere. Sempre per la tragedia egli é pantoporos aporos, cioè capace di percorrere tutte le vie ma senza averne una precisa:
"l’uomo é quindi “de-viato” dal corso della natura".
In questa sua solitudine risiede anche la sua tragica grandezza, cioè l’essere aperto alla progettualità come apertura al mondo e alla temporalità, alla morte ed alla libertà.
Pantoporos aporos: in questo ossimoro Sofocle racchiude la tremenda condizione dell’unica creatura che "ek-siste" al di fuori della compiutezza della natura, poiché l’agire umano tende a lottare contro il nulla ed é destinato ad approdare infine ad esso; il nulla che qui si intende é il nulla della morte, orizzonte ultimo e predestinato di ogni vita. La specie umana, dunque, che si differenzia dalle altre per
 
l'abilità nello scovare soluzioni, per l'inarrestabile capacità di procedere oltre sfidando qualsiasi condizione fisica e morale, si deve, anch'essa arrendere di fronte alla somma aporía (lett. senza strada), al più radicale dei vicoli ciechi, alla definitiva impasse: la morte. Fin dalle origini della cultura occidentale, quindi, la morte è sempre stata considerata come qualcosa di coappartenente alla natura umana, un evento non solo ineliminabile ma addirittura caratterizzante “l'essere dell'uomo” anche in positivo: non solo annichilimento bruto ma condicio sine qua non proprio di quell'impulso vitale di cui, ad un primo sguardo, sembra l'esatto opposto. Si delinea, dunque, già da queste prime battute, un orizzonte dove l'uomo non solo è definitivamente e necessariamente mortale, ma dove lo stesso diviene, grazie alla sua coscienza di esserlo, «il mortale», concezione avallata, tra l'altro, anche filologicamente dall'utilizzo del termine brotói (mortali) come sinonimo di «uomini».La specie umana è, quindi, l'unica ad essere veramente mortale perché l'unica ad avere gli occhi costantemente puntati verso quell'attimo fatale.

A pensarci bene, tuttavia, tale considerazione, tanto ovvia razionalmente, non sembra tranquillizzarci nella vita di tutti i giorni e nemmeno, alla luce di questo, potremo garantire un comportamento tranquillo e distaccato di fronte al sommo istante della nostra esistenza.
Per capire la causa dello scandalo della morte, perché vera e propria scandalosità è quella che ci offende di fronte alla vista di un cadavere completamente pietrificato, bisogna, dunque, muoverci al di sotto di quel piano razionale che abbiamo visto non offrirci nessuna effettiva spiegazione e consolazione.
Questo piano non può che essere rappresentato, quindi, che da quel nucleo di primitivismo irrazionale, o meglio pre-razionale, che permane in ognuno di noi; il piano, cioè, degli “impulsi istintivi”.
Potremo dunque, chiaramente, interrogare chi più di chiunque altro ha meditato su tali aspetti della psiche umana. Mi sto riferendo a Sigmund Freud il quale in alcune sue opere ("Totem e tabù"," Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte", "L'interpretazione dei sogni", "Psicopatologia della vita quotidiana") ha messo in luce magistralmente l'importanza di tali forze inconsce che si riveleranno essere, almeno in questo caso, un vero e proprio conflitto psicologico.
Secondo Freud l'uomo primitivo, che in quanto a pulsioni e istinti non differisce assolutamente dall'uomo contemporaneo, ha radicata dentro di sé una forte tensione alla distruzione e all'odio, forse legata a quell'aspetto concorrenziale e agonistico che caratterizzava sicuramente la selezione naturale.
Anche tralasciando ulteriori passioni altrettanto forti che possono complicare tale impulso, come il complesso edipico per esempio, l'uomo primitivo non trova particolari difficoltà a concepire la morte dell'Altro, né gli crea particolare imbarazzo il constatare come il cadavere si riveli alla fine nient'altro che carne soggetta, anch'essa, alle leggi naturale della degenerazione.
Per quanto riguarda, invece, la propria morte non si fatica a comprendere come fosse, già allora, caratterizzata da quell'estrema irrappresentabilità nella quale ci imbattiamo ancora oggi quando pensiamo all'attimo in cui saremo noi a spegnerci.
C'era, però, un caso in cui la morte dell'Altro, coincidendo con quella del sé, poteva offrire una rappresentazione di tale evento; tale situazione era quella in cui, a morire, era l'amata, il figlio, il padre o chiunque altro fosse particolarmente legato a questi. L'uomo primitivo faceva, così, esperienza di una sensazione nuova, di un profondo paradosso radicato dentro di sé:
<<se da un lato doveva apprendere che anche noi stessi possiamo morire, e tutto il suo essere si rivoltava contro questa possibilità; giacché ogni uno di questi esseri amati era pure una parte del suo stesso diletto Io. Dall'altra parte questa stessa morte gli stava bene, giacché ciascuno di queste persone amate era pure per un certo verso estraneo. La legge dell'ambivalenza emotiva, che domina ancor'oggi i nostri sentimenti verso le persone che amiamo di più, valeva certamente in forma anche più illimitata nei tempi primordiali.>>
Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Bollati Boringhieri, 1994, p. 41
L'uomo primigenio, dunque, di fronte al cadavere della persona amata non prova più quel senso di potenza e di vittoria che assaporava di fronte alla morte del nemico ma gli si pone davanti un enigma, un conflitto di passioni, il dramma di dover giustificarsi e spiegarsi tale morte.
L'uomo dovette così immaginare un'alternativa a quella degenerazione del corpo che osservava nella morte degli altri, doveva trovare una via d'uscita a quel macabro spettacolo, perlomeno nel caso della morte di un suo caro, che alla fine era solo un pretesto per pensare la propria morte altrimenti inimmaginabile. Tale scorciatoia, e ritorna così il «pantóporos» anticipato da Sofocle, la trovò nell'invenzione dello spirito. Lo spirito offriva, infatti, l'occasione per separare l'essenza della persona amata da quel desolante spettacolo di putrescenza che assaliva il corpo del defunto e permetteva, così, una non rassegnata visione della morte rendendo possibile addirittura un universo parallelo, una vita ulteriore dove potesse esistere tale spirito separatosi ormai dal corpo.
«Divenne allora logico prolungare la vita anche nel passato, immaginando le esistenze anteriori, la trasmigrazione delle anime (metempsicosi) e le reincarnazioni: tutto allo scopo di togliere alla morte
il significato di annullamento della vita». Con questo, Freud, delinea psicanaliticamente la nascita di quel conflitto che, non solo viene ad essere fondamentale per l'interpretazione di ogni forma di totemismo, riscontrabile sia nelle primitive società ancestrali che in alcune moderne pratiche religiose, come l'eucaristia per esempio, ma viene definita addirittura da Freud come il cardine, il crocevia di ogni teoria o diagnosi psicanalitica. Non solo; l'impossibilità di guardare in faccia la morte nella sua nudità viene, dunque, ad essere anche causa della nascita del concetto di religione.

Questo è solo una prima parte .. a presto posterò altre riflessioni a riguardo.

Raniero



Fonti
Sigmund Freud, "Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte",Bollati Boringhieri, 1994

Nessun commento:

Posta un commento