Nei miei lavori affronto spesso l'argomento della morte in quanto ritengo che accomuna tutti gli essere viventi, specificatamente l’uomo, in una sorta di destino comune quasi come una comunione tra individui che permette un’interazione. Il “mortale” si affanna a costellare la sua esistenza di tutta una serie di piccole morti, di esperienze che lo portino a vanificare, seppur per un momento, quella discontinuità che lo rende solo e che gli impedisce di comunicare con gli altri individui. Esiste un’altro momento di possibile interazione e quello si chiama EROS; la pulsione di vita, (l'eros) affiancata da una pulsione di morte (thanatos). Vivo il presente come dovessi morire oggi, penso al domani come non dovessi morire mai. Come testimonia Sofocle, l'uomo è sempre stato considerato la specie astuta per eccellenza, la specie che grazie al suo intelletto ha saputo adattare il mondo che lo circonda alle sue esigenze imparando a coltivare, a navigare, a catturare gli animali e a servirsene per i suoi bisogni; l'uomo sembra, dunque, essere l'animale che più si avvicina all'onnipotenza divina. | ||
In Sofocle si legge, infatti, che l'uomo è l’essere terribile e prodigioso a causa della sua astuzia, a causa di quella temibile sagacia che consiste nell'essere <<pantóporos>>, nell'essere, cioè, ricco di risorse, nell'avere la capacità di trovare nuove strade da percorrere. Sempre per la tragedia egli é pantoporos aporos, cioè capace di percorrere tutte le vie ma senza averne una precisa: "l’uomo é quindi “de-viato” dal corso della natura". In questa sua solitudine risiede anche la sua tragica grandezza, cioè l’essere aperto alla progettualità come apertura al mondo e alla temporalità, alla morte ed alla libertà. Pantoporos aporos: in questo ossimoro Sofocle racchiude la tremenda condizione dell’unica creatura che "ek-siste" al di fuori della compiutezza della natura, poiché l’agire umano tende a lottare contro il nulla ed é destinato ad approdare infine ad esso; il nulla che qui si intende é il nulla della morte, orizzonte ultimo e predestinato di ogni vita. La specie umana, dunque, che si differenzia dalle altre per | ||
l'abilità nello scovare soluzioni, per l'inarrestabile capacità di procedere oltre sfidando qualsiasi condizione fisica e morale, si deve, anch'essa arrendere di fronte alla somma aporía (lett. senza strada), al più radicale dei vicoli ciechi, alla definitiva impasse: la morte. Fin dalle origini della cultura occidentale, quindi, la morte è sempre stata considerata come qualcosa di coappartenente alla natura umana, un evento non solo ineliminabile ma addirittura caratterizzante “l'essere dell'uomo” anche in positivo: non solo annichilimento bruto ma condicio sine qua non proprio di quell'impulso vitale di cui, ad un primo sguardo, sembra l'esatto opposto. Si delinea, dunque, già da queste prime battute, un orizzonte dove l'uomo non solo è definitivamente e necessariamente mortale, ma dove lo stesso diviene, grazie alla sua coscienza di esserlo, «il mortale», concezione avallata, tra l'altro, anche filologicamente dall'utilizzo del termine brotói (mortali) come sinonimo di «uomini».La specie umana è, quindi, l'unica ad essere veramente mortale perché l'unica ad avere gli occhi costantemente puntati verso quell'attimo fatale. | ||
A pensarci bene, tuttavia, tale considerazione, tanto ovvia razionalmente, non sembra tranquillizzarci nella vita di tutti i giorni e nemmeno, alla luce di questo, potremo garantire un comportamento tranquillo e distaccato di fronte al sommo istante della nostra esistenza. Questo è solo una prima parte .. a presto posterò altre riflessioni a riguardo. | ||
mercoledì 23 febbraio 2011
La Morte parte 1
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